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Mauri Fabio
Cielo vicino
L’opera bella va oltre il suo tempo, supera l’icasticità, ha vita propria, contenendo una totalità ineffabile, sussurrando quel che c’è di indeterminato nell’esperienza percettiva di chi ne fruisce, in uno scambio capace di ridare totalità all’opera stessa. Questa l’arte di Fabio Mauri, la sua ecletticità, capace di rendere l’essenza che sottende ad ogni esperienza artistica, ad ogni percorso conoscitivo: l’eterno persistere della domanda, il suo riformularsi. “Cielo Vicino”, nasce dal connubio di un’installazione ed una performance, richiama un’esperienza esistenziale che accomuna l’uomo, nella generale impossibilità di giustificare la morte; “convincimi della morte degli altri capisco solo la mia”, scrive l’artista, su una striscia di tessuto appesa lungo una parete dello spazio, descrivendo l’assurdità della trascendenza a cui l’uomo è destinato a credere, nella volontà di rispondere al paradosso della morte. Da questa esigenza nasce la trasfigurazione di una vita dopo la morte, una vita capovolta.
Questa la metafora che Mauri mette in scena, ricreando una sala cinematografica dove stravolge la prospettiva, installando al soffitto una parte dei sedili; visione che si sublima nelle immagini di Gertrud, film di Dreyer, la cui proiezione riempie anche le pagine del giornale sfogliato dall’unico spettatore, mentre in un corridoio dello spazio, lo sguardo penetrante di un’attrice quasi immobile riesce a rendere tutta la profondità dell’immagine.